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Categoria: Sostenibilità

Negli ultimi anni il settore agroalimentare ha assunto sempre più rilevanza non solo per i consumatori, ma anche per il Legislatore che, già a partire dal 2015, aveva elaborato un disegno di legge di riforma dei reati agroalimentari, poi andato scemando.

L’esigenza di intervenire in tale settore è determinata dal fatto che l’attuale mercato degli alimenti appare inevitabilmente dominato dalle multinazionali del settore, soggette alla globalizzazione e a continue aggregazioni societarie che comportano un aumento di investimenti nel settore, rendendolo il principale referente criminologico.

Appare dunque evidente che, anche in tale ambito, possono configurarsi attività imprenditoriali scorrette unicamente volte ad aumentare i profitti dell’ente, violando prescrizioni che regolamentano la produzione, conservazione e vendita dei prodotti alimentari.

Pertanto, risulta necessario prevedere la responsabilità anche delle persone giuridiche (enti, società…) per i cd. reati agro-alimentari che tuttavia, sebbene configurino condotte criminose di rilevante portata, ad oggi non rientrano nel novero dei reati presupposto per la responsabilità amministrativa degli enti, di cui al Dlgs. 231/01.

Il nuovo disegno di legge

Alla luce di quanto sopra, lo scorso 25 Febbraio 2020, il Consiglio dei Ministri ha approvato il Ddl n. 283 rubricato “Nuove norme in materia di reati agroalimentari”, che è stato presentato alla Camera in data 6 Marzo 2020 ed è stato assegnato alla Commissione Giustizia per l’esame in sede referente il 23 Aprile 2020.

La riforma introduce una riorganizzazione sistematica della categoria dei reati in materia alimentare, contemplando anche nuove fattispecie delittuose e incidendo sulla responsabilità amministrativa dell’ente.

Le nuove fattispecie di reato

Il Ddl interviene in modo organico sia sulla legge di riferimento, L. 283/1962, sia sul codice penale, anche mediante la contemplazione di nuove fattispecie delittuose tra cui il “reato di agropirateria” (art. 517 quater 1 c.p.) e di “disastro sanitario” (art. 445 bis. c.p.).

Nello specifico, il reato di agropirateria è volto a reprimere tutti quei comportamenti criminosi e dannosi che compromettono il prodotto alimentare ab origine, come ad esempio le condizioni degli animali, l’uso di prodotti chimici ecc.

Con riguardo, invece, al delitto di disastro sanitario esso si staglia come ipotesi aggravata e autonoma di singoli mini- disastri pregiudizievoli per la salute, dai quali sia derivata: a) la lesione grave o la morte di 3 o più persone; b) il pericolo grave e diffuso di analoghi eventi ai danni di altre persone.

La responsabilità da illecito alimentare nel modello 231

Il summenzionato Ddl prevede l’introduzione dei reati agro-alimentari nel catalogo dei reati presupposto. In particolare, dalle Linee Guida del disegno di legge si desume che l’intervento del legislatore è finalizzato non solo ad allargare il novero dei reati presupposto, ma altresì ad incentivare l’applicazione concreta delle norme in tema di responsabilità degli enti, nonché a favorire l’adozione e l’efficace attuazione di più puntuali modelli di organizzazione e di gestione da parte delle imprese anche di minore dimensioni.

In particolare, è prevista la scomposizione dell’art. 25 bis del D.Lgs. 231/01 in tre nuovi e distinti capi:

  • Art. 25 bis. 1: che rimane dedicato ai “Delitti contro l’industria e il commercio;
  • Art. 25 bis 2 rubricato “Delle frodi in commercio di prodotti alimentari”, punito con la sanzione pecuniaria tra le 100 e le 800 quote, oltre che con l’applicazione di sanzioni interdittive temporanee limitatamente ai soli casi di condanna per il reato di agropirateria;
  • Art. 25 bis 3 rubricato “Dei delitti contro la salute pubblica” punito con la sanzione pecuniaria ricompresa tra le 300 e 1000 quote, oltre che l’applicazione di sanzioni interdittive temporanee nei casi di condanna per tutte le fattispecie ivi menzionate secondo una durata definita sulla base della gravità dell’illecito commesso.

Altresì, con riferimento agli artt. 25 bis.2 e 25 bis.3 è prevista la possibilità di ricorrere all’applicazione nei confronti dell’ente della più grave misura dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività “nel caso in cui lo scopo unico o prevalente dell’ente sia il consentire o l’agevolare la commissione dei reati sopra indicati”.

Infine, il Ddl prevede l’introduzione dell’art. 6 bis, speciale rispetto all’art. 6 del D.Lgs. 231/01.

Tale disposizione detta una particolare disciplina da applicare solo alle imprese alimentari, prevedendo standard personalizzati per la creazione e l’implementazione di un Modello 231 integrato e, in particolare, per l’assolvimento di tre classi di obblighi eterogenei:

  1. Obblighi a tutela dell’interesse dei consumatori (art. 6bis lett. a) e b) D.Lgs. 231/01)
  2. Obblighi a protezione della genuinità e sicurezza degli alimenti sin dalla fase originaria di produzione (art. 6 bis lett. c), d) ed e) del D.Lgs. 231/01)
  3. Obblighi in merito agli standard di monitoraggio e controllo (art. 6 bis. lett. f) e g) D.LGS. 231/01)

Come muoversi nel frattempo?

Ad oggi, non ci è dato sapere quando la legge entrerà in vigore. Tuttavia, nonostante l’incertezza, un aspetto è chiaro: il settore agro-alimentare, al pari di altri, per il suo florido dinamismo può essere terreno fertile per la commissione di diversi reati. Non si può escludere a priori la responsabilità della società per gli stessi, soprattutto se la medesima non si è dotata di un adeguato Modello 231.

Non aspettate la riforma per implementare all’interno delle vostre Società un Modello 231: prevenire è meglio che…. pagare!

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 15.07.2018 nella Causa C-528/16, ha chiarito il rapporto tra gli organismi ottenuti mediante tecniche di mutagenesi e gli OGM, e ne ha definito l’ambito di applicazione della normativa.

Nel 2015 era stato presentato ricorso avanti il Consiglio di Stato Francese da parte di nove ricorrenti che sostenevano che le tecniche di mutagenesi si sono evolute nel tempo e consentono ormai di produrre, così come le tecniche di transgenesi, varietà resistenti a un erbicida; gli obblighi di cui alla Direttiva 2001/18[1] per gli OGM non sono tuttavia applicabili a tali varietà, sebbene presentino rischi per l’ambiente o la salute, e pertanto richiedevano l’annullamento della decisione di primo grado in merito alla loro domanda diretta ad abrogare la norma che esclude la mutagenesi dalle tecniche che determinano una modifica genetica[2].

Il Consiglio di Stato francese ha dunque sospeso il procedimento inviando alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per la definizione di quattro questioni pregiudiziali.

Prima questione: riscontrando che le mutazioni ottenute dalle tecniche o metodi di mutagenesi, diretti a produrre varietà di specie vegetali resistenti a un erbicida, costituiscono modifiche arrecate al materiale genetico di un organismo, e che dette tecniche o detti metodi possono implicare il ricorso ad agenti mutageni chimici o fisici o il ricorso all’ingegneria genetica, modificando il materiale genetico di un organismo secondo modalità non realizzate naturalmente, la Corte ha stabilito che tali organismi vanno considerati Ogm e rientrano nella definizione della Direttiva. Inoltre, ha concluso che sono esclusi dagli obblighi della Direttiva solo gli organismi ottenuti attraverso determinate tecniche di modificazione genetica utilizzate convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza.

Seconda questione: la Corte ha ritenuto che le varietà ottenute mediante tecniche o metodi di mutagenesi devono ritenersi rientranti nella nozione di «varietà geneticamente modificate», di cui all’art. 4, par. 4, della Direttiva 2002/53 e che le varietà geneticamente modificate ottenute con tecniche o metodi di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza sono esenti dagli obblighi previsti dall’art.4, par.4.

Terza questione: la Corte ha ritenuto che il Legislatore dell’Unione non ha previsto specifiche ed ulteriori norme a carico degli Stati membri, ma solo stabilito alcune deroghe alla Direttiva, e ha così lasciato spazio agli Stati membri di legiferare autonomamente, nel rispetto del diritto dell’Unione e così far applicare gli obblighi previsti dalla Direttiva stessa, o altri obblighi.

Quarta questione: la Corte conclude ritenendo di non doversi pronunciare sulla validità dell’art.2 e dell’art.3 della Direttiva 2001/18 in relazione al principio di precauzione, perché a seguito della sua stessa interpretazione tali due norme sarebbe nel senso non escludono dall’ambito di applicazione della Direttiva tutti gli organismi ottenuti mediante tecniche o metodi di mutagenesi, indipendentemente dalla tecnica utilizzata.

Quindi, in sintesi, gli organismi ottenuti per mezzo di tecniche o metodi di mutagenesi sono da considerarsi OGM e, in generale, ad essi valgono gli obblighi stabiliti dalla Direttiva 2001/18, con esclusione degli organismi ottenuti mediante tecniche di mutagenesi utilizzate convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza, e salva la possibilità per gli Stati membri di prevedere che anche tali organismi ne siano assoggettati oppure di prevedere altri specifici obblighi.

[1] Direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio.

[2] Trattasi dell’art. D.531-2 del codice dell’ambiente, che traspone la Direttiva 2001/18.

Il 20 maggio scorso si è celebrata la giornata mondiale delle api.

In questa data, scelta dalle Nazioni Unite in ricordo del ricercatore sloveno Anton Janša che nel diciottesimo secolo aveva apprezzato ed evidenziato le enormi potenzialità e capacità delle api, e che per primo utilizzò alcune delle moderne tecniche di apicoltura.

Lo straordinario mondo delle api, affascinante e fondamentale per l’ambiente e l’agricoltura, rimane purtroppo esposto a pericoli e minacce (soprattutto chimiche), come abbiamo raccontato in alcuni nostri precedenti interventi sul tema dove abbiamo presentato il gruppo di lavoro dell’EFSA Must-B, che dal 2015 si occupa di studi e ricerche sui fattori di stress che più fortemente minacciano e condizionano le api, per elaborare appositi modelli di valutazione del rischio.

Ora, è in partenza un partenariato UE, che sarà presentato a Bruxelles a fine giugno, a cui possono partecipare rappresentanti di associazioni di apicoltori, organizzazioni ambientaliste, associazioni di agricoltori, industrie fitosanitarie e veterinarie, nonché valutatori del rischio, scienziati e veterinari.

Questo nuovo sforzo scientifico mira al miglioramento della raccolta, gestione e condivisione dei dati sulla salute e sui pericoli delle api in Europa e non solo, in particolare concentrandosi su:

  • sviluppo di un repertorio di dati sulla salute di api mellifere, bombi e api solitarie;
  • individuazione di modalità per armonizzare la raccolta e la gestione dei dati;
  • sviluppo di strumenti per la valutazione della salute delle api, per assistere gli apicoltori, gli agricoltori e altri soggetti.

Il tutto verrà presentato alla prossima Settimana europea delle api e dell’impollinazione, giunta alla settima edizione, dal 26 al 28 giugno 2018, organizzata dall’Intergruppo del Parlamento Europeo “Cambiamento climatico, sviluppo sostenibile e biodiversità”, dedicata al tema “I passi dell’agricoltura per la tutela le api”.

Alcuni giorni fa il Mipaaf ha annunciato il via della selezione nazionale per il finanziamento di progetti dedicati alla limitazione degli sprechi alimentari, come previsto dalla Legge n.166/2016 di cui avevamo già parlato all’epoca della sua entrata in vigore.

In particolare, l’art.11, comma 2 della Legge, modificato dall’art.1, comma 208, lettera e) della Legge n. 205/2017, istituisce un fondo destinato al finanziamento di progetti innovativi integrati o di rete, finalizzati alla limitazione degli sprechi e all’impiego delle eccedenze con particolare riferimento ai beni alimentari e alla loro destinazione agli indigenti, nonché alla promozione della produzione di imballaggi riutilizzabili o facilmente riciclabili e al finanziamento di progetti di servizio civile nazionale.

Il Bando per la selezione pubblica nazionale per l’erogazione di contributi per il finanziamento di progetti innovativi, relativi alla ricerca e allo sviluppo tecnologico finalizzati alla limitazione degli sprechi e all’impiego delle eccedenze alimentari scade alle ore 16.00 del 10 maggio 2018, e vi possono partecipare, mediante la compilazione e invio dell’apposito Modulo (allegato II):

  • enti pubblici, università, organismi di diritto pubblico e soggetti a prevalente partecipazione pubblica;
  • associazioni, fondazioni, consorzi, società, anche in forma cooperativa e imprese individuali;
  • una aggregazione, nelle forme consentite dalla vigente normativa, anche temporanea o nella forma di start up, di due o più dei soggetti sopra individuati;
  • una rete di imprese, come definita dalla normativa vigente;
  • soggetti iscritti all’Albo nazionale ed agli Albi delle Regioni e delle Province autonome dell’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile.

È previsto, per questo nuovo bando (che segue quello del 2017, che aveva finanziato ben 10 progetti per complessivi 500.000 €), uno stanziamento di 700.000 €, e un finanziamento massimo di 50.000 € per ciascun progetto; le attività previste devono essere concluse entro un anno dall’approvazione del progetto, mediante pubblicazione della graduatoria.

Ricordiamo anche il Vademecum del Mipaaf con cui venivano dati alcuni consigli pratici da seguire nella quotidianità, per sprecare meno cibo ed acquistare e consumare più consapevolmente.

Sembra che qualcosa si stia muovendo davvero nella giusta ed auspicata direzione che punta a migliorare lo standard di benessere degli animali.

Ricordiamo che lo scorso anno è stata istituita la Piattaforma UE sul benessere degli animali, e questo ulteriore passo avanti di questi giorni dimostra l’attenzione dell’Unione per alcuni temi sui quali Istituzioni e politica non possono più tacere.

E così, lo scorso 6 marzo è stato pubblicato il Regolamento di esecuzione (UE) 2018/329[1] della Commissione del 5 marzo 2018 che designa un centro di riferimento dell’Unione europea per il benessere degli animali, in applicazione delle specifiche previsioni (artt.95 e 96) del Reg. UE n.625/2017 sui controlli ufficiali.

Alcuni giorni fa la Commissione europea ha dunque individuato e designato, nel citato Regolamento, il primo Centro di riferimento europeo per il benessere degli animali, “responsabile del sostegno alle attività orizzontali della Commissione e degli Stati membri nel settore delle prescrizioni in materia di benessere degli animali” (art.1), ed ha assegnato tale importante ruolo al Consorzio guidato da Wageningen Livestock Research, di cui fanno parte anche l’Università di Aarhus e il Friedrich-Loeffler-Institut, con sede nella città di Wageningen nei Paesi Bassi.

Il Regolamento sarà applicabile dal 29 aprile 2018, e la designazione del Centro verrà riesaminata ogni cinque anni.

Cosa compete al Centro?

La struttura è chiamata a dare supporto tecnico e assistenza coordinata agli Stati membri per effettuare controlli ufficiali, a contribuire alla diffusione di buone pratiche, alla conduzione di studi scientifici, allo sviluppo di metodi per la valutazione del livello di benessere degli animali e di strumenti di miglioramento, nonché attività di formazione per i tecnici e gli organismi scientifici e per la diffusione di studi e conoscenze sulle innovazioni tecniche. Quindi, si occuperà di monitorare gli aspetti scientifici e normativi che riguardano il benessere degli animali, col fine di migliorarne il livello.

[1] Regolamento di esecuzione (UE) 2018/329 della Commissione del 5 marzo 2018 che designa un centro di riferimento dell’Unione europea per il benessere degli animali.

Nel corso degli ultimi mesi la zootecnia italiana ha segnato traguardi importanti.

Ad esempio, con il passaggio del Modello IV utilizzato per l’identificazione e la registrazione degli animali (sostanzialmente un foglio su cui indicare i dati riguardanti l’animale da trasportare e l’azienda, come la provenienza e destinazione dell’animale, i trattamenti sanitari effettuati, gli spostamenti) dal formato cartaceo a quello digitale, da gestire attraverso la Banca Dati Nazionale dell’anagrafe zootecnica (BDN).

Dallo scorso 2 settembre, infatti, è diventata operativa la modalità informatica di compilazione del Modello IV e la movimentazione degli animali viene gestita esclusivamente in via telematica, con l’addio definitivo al “foglio rosa”[1].

Il settore di cui ci stiamo occupando ha subito nel tempo colpi e contraccolpi pesanti che hanno finito (direttamente, o indirettamente come conseguenza di focolai accesi in altri Paesi) per aumentare polemiche e sfiducia, mediante i noti servizi di stampa e tv sulle condizioni degli allevamenti e dei macelli coinvolti nelle attività criminali, così come attraverso le inchieste mediatiche “a tappeto” sugli allevamenti intensivi e l’uso dei farmaci veterinari, e quelle sugli impatti ambientali derivanti dalla produzione bovina.

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Ecco perché a maggio, a Padova, i principali rappresentanti della filiera zootecnica bovina in Italia, allevatori, associazioni, medici veterinari e rappresentanti delle Istituzioni si sono incontrati per parlare di futuro ed hanno sottoscritto[2] la Carta di Padova per la zootecnia bovina da carne prodotta in Italia, formulando precise richieste di intervento alle diverse Istituzioni interessate.

Innanzitutto, al Ministero della Salute e al Mipaaf è stato chiesto di presentare alla Commissione europea un progetto di Regolamento per la creazione di una cartella clinica dei bovini nati in Europa destinata a ricevere e conservare i dati e le informazioni sui trattamenti farmacologici, compresi quelli omeopatici, effettuati sull’animale sin dalla nascita, in modo da renderli immediatamente disponibili alle Autorità Sanitarie di ogni Paese Membro, ai Macelli e Laboratori di Sezionamento delle carni, ed incentivando l’adozione della ricetta elettronica[3]. Alla medesima Commissione è stato poi richiesto di sviluppare tale progetto e favorire l’attuazione della ricetta elettronica.

Inoltre, hanno formalmente chiesto al Mipaaf di adottare il Piano Carni Bovine Nazionale già da tempo presentato dal Consorzio L’Italia Zootecnica e più volte revisionato, di darne attuazione e di promuovere così l’avvio del Sistema di Qualità Nazionale Zootecnica (SQNZ).

Ancora, i produttori hanno confermato il proprio impegno a garantire il benessere animale anche attraverso l’applicazione di strumenti integrativi rispetto a quelli previsti dalle norme di settore[4], a migliorare la qualità della carne e i livelli di sicurezza attenendosi ai vari Disciplinari esistenti, a utilizzare prodotti di qualità nell’alimentazione e abbeveramento degli animali, a garantire pulizia e condizioni salubri negli allevamenti, e un utilizzo controllato dei farmaci veterinari. Nell’ottica della trasparenza e della tracciabilità, e quindi per fornire ai consumatori le informazioni utili, si impegnano ad osservare i Disciplinari di Etichettatura Facoltativa delle Carni Bovine attraverso interventi mirati da parte delle Istituzioni coinvolte.

Viene poi richiesto ai soggetti che, mediante i diversi canali della distribuzione, commercializzano la carne bovina, di garantire la correttezza e la trasparenza della filiera anche attraverso il rispetto delle migliori prassi e dei diritti dei lavoratori, valorizzando un prodotto che occupa un ruolo importante nell’economia del Paese.

La Carta di Padova non dimentica di rivolgere un’attenzione particolare anche agli organi di stampa, con esplicito invito ad attenersi a verità ed obiettività nel riportare dati e informazioni.

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Infine, viene dato ampio spazio al problema dell’informazione ai consumatori circa gli alimenti a base di carne bovina nella ristorazione, e a tal fine viene proposta in allegato alla Carta stessa una bozza di Decreto Legge “ETICHETTATURA E TRACCIABILITA’ DELLE CARNI BOVINE NELLA RISTORAZIONE”[5] posto che la crescente abitudine per gli italiani di mangiare al ristorante, al bar, in trattoria è dato inconfutabile, nelle pause pranzo o per cena, e che pertanto è ormai indispensabile che il consumatore possa conoscere le informazioni sulle carni bovine che non ha acquistato ma che di fatto gli vengono somministrate al tavolo.

La Carta di Padova costituisce così uno strumento programmatico dalle molteplici potenzialità e in grado, se concretamente attuata da tutti i soggetti coinvolti, di consentire interventi su diversi livelli e da più parti, di restituire alla carne bovina italiana il ruolo ed il pregio che l’hanno contraddistinta nel tempo, per le proprietà nutrizionali, per l’attenzione verso l’ambiente e verso le condizioni degli allevamenti, per il benessere degli animali, e per l’interesse a garantire la sicurezza e l’informazione dei consumatori.

[1] In parte previsto dall’Ordinanza Ministeriale 28 maggio 2015 e poi dal D.M. 28.06.2016.

[2]I firmatari: Associazione Produttori Carni Bovine UNICARVE, Associazione Produttori ASPROCARNE, Organizzazione Produttori AZOVE, Allevatori Marchigiani BOVINMARCHE, Consorzio Carni di SICILIA, Cooperativa Zootecnica SCALIGERA, Soc. Coop. BOVINITALY, Cooperativa Agricola Produttori Castellana, Consorzio LA CARNE CHE PIACE, Associazione Produttori Carni Bovine del BOCCARONE, Associazione Italiana Macellatori ASSITAMA, Consorzio L’Italia Zootecnica.

[3] La ricetta elettronica quale strumento finalizzato a garantire una maggiore tracciabilità del farmaco veterinario e delle malattie dell’animale.

[4] Ad esempio, si legge nella Carta, i Disciplinari del Centro di Referenza Nazionale per il Benessere Animale (CReNBA), IZSLER di Brescia per la ‘Valutazione del Benessere Animale e Biosicurezza.

[5] L’ Art. 1 della bozza individua oggetto e campo di applicazione “Il presente decreto stabilisce norme riguardanti la rintracciabilità e l’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza sulle carni bovine, anche macinate, e delle preparazioni che le contengano, impiegate negli alimenti oggetto di somministrazione e vendita in Italia da parte delle collettività”.

Si sa, i bambini che vivono nelle città (e sono sempre di più) sono abituati a vedere frutta e verdura nel carrello della spesa o nelle cassette del fruttivendolo, e pochi di loro sanno che quelle pere e quelle carote sono nate e cresciute sull’albero e sotto terra. Mangiano pasta quasi tutti i giorni, ma difficile che sappiano da dove arrivano spaghetti e fusilli…e se anche qualcuno gliel’ha spiegato, difficle che abbiano visto un seme di grano o una pianta di farro.

Un recente comunicato stampa di Slow Food annuncia il via, anche per quest’anno, del progetto didattico dedicato ai bambini per portarli a conoscere gli orti e i prodotti della natura.

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Parte domani, 10 novembre, quella che Slow Food chiama la Festa Nazionale di Orto in Condotta, occasione per gli allievi delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado per far sprofondare mani e piedi nelle zolle tra i campi dimenticando per un po’ videogiochi e televisione.

L’edizione 2017, che vedrà coinvolte 570 classi in tutta Italia, è incentrata sul tema dei cereali, e gli alunni infatti avranno un kit speciale contenente 5 tipi di semi pronti da interrare insieme, con l’aiuto degli insegnanti e dei genitori che hanno aderito. In ogni kit ci sono 2 semi di grano duro, 2 semi di grano tenero e un seme di farro, che verranno poi osservati durante l’anno per capire la crescita e le fasi di maturazione.
Inoltre, i kit contengono anche 3 farine diverse da manipolare, annusare, osservare, per capire come si arriva dal seme alla pasta.

La manifestazione comprende anche due iniziative divertenti e istruttive per i giovani alunni, pienamente inserite nello spirito e nel percorso di sensibilizzazione di Slow Food. Innanzitutto, è stato programmato un concorso per la realizzazione dello spaventapasseri più originale ottenuto con materiali di recupero provenienti dall’orto e di scarto in generale, e poi la premiazione della migliore ricetta “amica del clima” nell’ambito della campagna Menu for change, lanciata a settembre, che promuove scelte anche alimentari più favorevoli al clima e all’ambiente.

Durante la Festa, le scuole possono organizzare delle ulteriori attività personalizzate a seconda della propria realtà territoriale e ambientale, a cui possono partecipare anche i genitori e i nonni (custodi di ricette gustose e salutari e di “saggezza ortolana”) ad esempio portando gli alunni in visita a mulini, facendo portare a casa un vasetto col semino interrato, lavorando insieme la farina per fare la pasta tradizionale del loro paese…

La manifestazione non riguarda solo la conoscenza dei prodotti della natura e dei cereali, bensì riesce a coinvolgere anche aspetti collaterali ma fondamentali quali la famiglia, le tradizioni, i mestieri locali, attraverso la partecipazione attiva dei genitori e dei nonni e la consegna ai più giovani degli antichi saperi e sapori.

Chiunque abbia vissuto in Germania, per esempio, ha sperimentato il sistema del vuoto a rendere delle bottiglie di vetro e di plastica di acqua, bibite, succhi di frutta, che vengono restituite al punto vendita o all’apposito raccoglitore dopo essere state svuotate, a fronte di una simbolica somma di denaro versata come cauzione, e che saranno lavate e adattate per essere poi riutilizzate. Acquisti delle bottiglie al bar, al distributore automatico, al supermercato, e leggi sulla confezione un minimo sovraprezzo (circa 0,25 cent, 0,50 cent), che perderai se deciderai di non restituire la bottiglia.

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Questa modalità di utilizzo e restituzione delle bottiglie di vetro, plastica o altro materiale viene ora proposta anche in Italia, pur se in via volontaria e sperimentale, grazie al Decreto 3 luglio 2017 n.142 ovvero il Regolamento recante la sperimentazione di un sistema di restituzione di specifiche tipologie di imballaggi destinati all’uso alimentare, ai sensi dell’articolo 219-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 emesso dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare in vigore dal 10 ottobre scorso, per un periodo di 12 mesi.

Si tratta di 7 articoli e 3 Allegati, attraverso i quali si vuole perseguire la finalità dichiarata all’art.1 di prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio, favorendo il riutilizzo degli imballaggi usati”, sensibilizzando gli operatori e i consumatori sull’importanza e necessità di ridurre i rifiuti attraverso il riciclo dei contenitori più diffusi come le bottiglie di vetro e di plastica.

Il Decreto interessa solo alcune tipologie di contenitori come bottiglie di acqua minerale e birra serviti al pubblico da alberghi o residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri punti di consumo, di cui all’articolo 219-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152[1], in plastica, vetro o altro materiale e di volume compreso tra 200 ml e 1,5 litri”, che attraverso la restituzione e la lavorazione potranno essere riutilizzati fino a 10 volte.

Per partecipare a tale sistema, su base volontaria, occorrerà aderire alla filiera del vuoto a rendere ovvero l’insieme degli operatori che a titolo professionale sono coinvolti nell’attuazione del sistema del vuoto a rendere. La filiera e’ di tipo lungo se la consegna avviene indirettamente, tramite il distributore, viceversa e’ di tipo corto se la consegna e’ svolta direttamente dal produttore di bevande, in assenza del distributore”, mediante la compilazione del modulo Allegato 1 al Decreto e con le modalità indicate all’art.3.

vuoto a rendere

Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare prevede la tenuta di un Registro (aggiornato mensilmente) degli operatori aderenti alla sperimentazione e lo pubblica sul sito web istituzionale, e rilascia un attestato di benemerenza da affiggere sul proprio punto vendita.

Come calcolare la somma da imputare a cauzione? Secondo il nuovo regolamento, il valore della cauzione deve essere individuato in base al volume dell’imballaggio sulla base dei parametri riportati alla tabella Allegato 2, e sarà compreso tra 0,5 e 0,30 centesimi di euro. Come si legge all’art.4, “l‘importo della cauzione in nessun caso comporta un aumento del prezzo di acquisto per il consumatore”.

È inoltre contemplato un sistema di monitoraggio specifico finalizzato alla raccolta, all’analisi e alla valutazione dei dati della sperimentazione” e gestito con le modalità riportate all’art.6.

L’obiettivo della sperimentazione è capire e determinare il numero delle adesioni e il concreto atteggiamento dei consumatori, per valutare se rendere permanente e definitivo il sistema del vuoto a rendere.

[1] L’art.219-bis. Sistema di restituzione di specifiche tipologie di imballaggi destinati all’uso alimentare, introdotto dall’art. 39, comma 1, legge n. 221 del 2015, recita “1. Al fine di prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio e di favorire il riutilizzo degli imballaggi usati, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione è introdotto, in via sperimentale e su base volontaria del singolo esercente, il sistema del vuoto a rendere su cauzione per gli imballaggi contenenti birra o acqua minerale serviti al pubblico da alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri punti di consumo. 2. La sperimentazione di cui al comma 1 ha una durata di dodici mesi. 3. Ai fini del comma 1, al momento dell’acquisto dell’imballaggio pieno l’utente versa una cauzione con diritto di ripetizione della stessa al momento della restituzione dell’imballaggio usato. 4. Con regolamento adottato, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono disciplinate le modalità della sperimentazione di cui al presente articolo. Con il medesimo regolamento sono determinate le forme di incentivazione e le loro modalità di applicazione nonché i valori cauzionali per ogni singola tipologia di imballaggi di cui al presente articolo. Al termine della fase sperimentale si valuterà, sulla base degli esiti della sperimentazione stessa e sentite le categorie interessate, se confermare e se estendere il sistema del vuoto a rendere ad altri tipi di prodotto nonché ad altre tipologie di consumo”.

 

Gran parte delle responsabilità per i grandi sprechi di prodotti alimentari del nostro Paese ricade sugli stessi consumatori che troppo spesso adottano comportamenti errati nella gestione degli acquisti, nell’utilizzo dei prodotti, nello smaltimento dei cibi. La restante causa è data dalle falle della catena produttiva e dell’intera filiera, sulle quali certamente ci sarebbe molto da lavorare.

Secondo un’indagine condotta da Last Minute Market e dall’Università di Bologna, in Italia ogni anno lo spreco alimentare è di oltre 15,5 miliardi di € (15.502.335.001 €), pari allo 0,94% del Pil (2016), di cui 12 miliardi (il 77%, 4/5) sono dovuti a quello domestico, mentre 3,5 miliardi dalla filiera alimentare (campi 946.229.325 €; produzione industriale 1.111.916.133 €; distribuzione 1.444.189.543 €).

sprechi 1Poco più di un anno fa, ricordiamo, è entrata in vigore la Legge n. 166/2016 di cui ci eravamo a suo tempo occupati illustrandone obiettivi e potenzialità.

I recenti dati del Mipaaf indicano che le quantità di cibo recuperato e destinato ai soggetti bisognosi grazie agli strumenti previsti dalla Legge sono andate crescendo in questi mesi, e anche l’attenzione dei consumatori verso questo problema si sta rafforzando.

Se effettivamente gli interventi migliorativi sulla filiera per ridurre sprechi e rifiuti sono difficili da attuare, intanto è proprio il consumatore che nel suo piccolo può iniziare a fare la differenza. L’idea è che correggendo alcune abitudini sbagliate, molto diffuse tra i consumatori, si possa riuscire a contenere lo spreco.

Da qualche giorno, lo stesso Mipaaf ha pubblicato sul proprio sito un Vademecum che fornisce ai consumatori alcuni consigli pratici e alcune informazioni su come gestire quotidianamente la propria spesa e la propria dispensa, evidenziando così gli errori più comuni da evitare per ridurre gli sprechi e i rifiuti che sembrano banali e scontati ma che continuano a mietere vittime più o meno inconsapevoli (spesso è colpa della pigrizia e del “ci penseranno gli altri” piuttosto che della mancanza di informazione!).

Ecco sostanzialmente i suggerimenti contenuti nel Vademecum del Mipaaf:

sprechi 3

  1. Prima di fare la spesa, controllare dispensa e frigorifero, individuare cosa c’è e cosa manca, e scrivere una lista dei prodotti che effettivamente e servono
  2. Acquistare prodotti freschi più spesso, e in quantità giusta
  3. Scegliere frutta e verdura con la giusta maturazione
  4. Nell’acquisto di prodotti preconfezionati, scegliere la quantità adatta ai propri bisogni senza eccedere
  5. Leggere sempre l’etichetta per conoscere la scadenza dei prodotti
  6. Se si acquistano grandi quantità (scorte) di prodotti, ricordare di consumare prima quelli con la data di scadenza più vicina o comprati prima
  7. A tavola servire porzioni adeguate, senza esagerare nella quantità. Per i pasti fuori casa, chiedere la family bag o doggy bag per portare via eventuali avanzi
  8. In frigorifero ogni ripiano ha una sua temperatura che permette di conservare in maniera ottimale i cibi
  9. Conservare bene i prodotti con le confezioni già aperte (provvedere a richiuderle adeguatamente)
  10. Utilizzare eventuali avanzi di cibo per realizzare nuove ricette
  11. Ricordare che l’indicazione “da consumarsi entro” (data di scadenza) significa che oltre la data indicata il prodotto non deve essere consumato perché potrebbe causare pericolo immediato per la salute. Invece, la diversa indicazione “da consumarsi preferibilmente entro” (termine minimo di conservazione) significa che il prodotto può essere consumato anche oltre la data riportata, con eventuali modifiche delle sue qualità organolettiche ma senza rischi per la salute[1].

 

[1] L’indicazione di tali informazioni rientra tra quelle obbligatorie ai sensi dell’art. 2, Reg. UE n.1169/2011

Non è passato molto tempo da quando, in un nostro articolo sul tema, vi abbiamo raccontato dell’importanza delle api e dei pericoli (soprattutto i pesticidi) che ne minacciano la sopravvivenza.

api 1L’attenzione che l’Europa riconosce e rivolge alle api e all’apicoltura, come straordinario esempio di potenzialità e capacità, è stata recentemente confermata da EFSA (da sempre impegnata su tale argomento scientifico), dal gruppo di lavoro Must-B che si occupa della ricerca sui fattori multipli di stress per le api presieduto dal Prof. Simon More veterinario dell’University College di Dublino, che ha pubblicato alcuni giorni fa un rapporto strumentale all’attività di raccolta dei dati per la valutazione dei rischi per le api, ove sono riportati e definiti i requisiti operativi a cui l’attività stessa dovrà attenersi.

In particolare, i ricercatori vogliono giungere alla creazione di un apposito modello di valutazione dei rischi, attualmente in fase di sviluppo, che dovrà appunto essere integrato e completato con l’indicazione specifica del tipo di dati richiesti, delle modalità, durata e criteri per la loro raccolta, prevedendo parametri sulla qualità dei dati ed elementi della colonia da prendere in esame (ad esempio il comportamento delle api stesse e la condizione dei prodotti dell’alveare).

api2Per elaborare questi aspetti verso la redazione di un apposito modello, le ricerche sono state condotte su siti di ricerca posizionati in quattro Stati membri particolarmente rappresentativi delle diverse condizioni climatiche e ambientali dell’Europa, esaminando tre sottospecie di api da miele.

Una cosa è certa: la perdita delle colonie e la moria delle api è spaventosa. Fermare tutto questo è possibile, vogliamo crederlo, e il mondo scientifico continua ad investire tempo e risorse nella raccolta e nello studio approfondito dei dati, e nella condivisione di un modello e metodo di ricerca che consenta di arrivare a risultati sempre più attendibili e così di elaborare strategie vincenti.