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Pensiamo ad una bevanda famosa, registrata col medesimo marchio e così venduta in molti Paesi, distribuita con la medesima confezione e immagine. Pensiamo, ad esempio, a Italia e Germania. Effettivamente, il consumatore tedesco potrebbe percepire, tra la bottiglia tedesca che acquista abitualmente nel supermercato sotto casa e quella italiana acquistata durante la sua vacanza sulle nostre spiagge alcune differenze nelle rispettive caratteristiche o composizione. La bevanda della stessa marca (stesso marchio, stessa confezione) ma acquistata in Paesi diversi, può risultare diversa agli occhi e al gusto del consumatore medio, di fatto determinando una disparità tra consumatori dell’uno o dell’altro Paese, soprattutto se dovesse risultare che il consumatore tedesco non avrebbe acquistato quella bottiglia in Italia se avesse saputo che aveva qualità differenti rispetto a quella da lui solitamente acquistata in Germania.

turista

Fino a quando le scelte strategiche dell’impresa, l’adeguamento alle diverse richieste del mercato, le particolarità nella fabbricazione a seconda del clima e delle diversità del luogo possono prevalere sulla legittima aspettativa del consumatore medio nei confronti di un prodotto di marca noto per le sue qualità e caratteristiche di composizione? Fino a quando tali differenze di qualità[1] sono legittime e non inducono in errore il consumatore? Quando, invece, sono contrarie alla normativa europea e costituiscono ipotesi di pratiche commerciali sleali?

Con COMUNICAZIONE DEL 29.09.2017[2], la Commissione europea ha pubblicato alcune considerazioni e piani di azione per aiutare le competenti Autorità degli Stati membri verso una corretta e comune applicazione delle norme, ha delineato alcuni criteri per l’individuazione di casi di differenze di qualità illegittime e ingiustificate, e suggerito conseguenti strategie contro le pratiche commerciali sleali ai danni del consumatore sulla base dei principi generali sanciti dal Reg. CE n.178/2002, le norme del Reg. UE n.1169/2011 sulle informazioni ai consumatori di alimenti, e la Dir. 2005/29/CE[3] sulle pratiche commerciali sleali.

Dopo aver evidenziato alcuni importanti aspetti contenuti nelle norme sopra ricordate, la Commissione ritiene necessario rafforzare alcuni punti per capire se effettivamente una certa pratica commerciale sia da considerare sleale e per adottare le misure opportune a tutela del consumatore, prospettando 4 AZIONI di intervento e strategia: 1.finanziamento e promozione di progetti nazionali di studio e ricerca per migliorare il rispetto della normativa di settore; 2.sviluppo di una metodologia di prova comune e armonizzata tra gli Stati, da parte del Centro comune di ricerca (JRC); 3.collaborazione e dialogo tra la Commissione, produttori e venditori al dettaglio, attraverso forum, riunioni e discussioni mirate; 4.orientamenti per le Autorità nazionali, con indicazioni operative per attuare la normativa e rafforzare i controlli e il contrasto alle pratiche sleali.

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Secondo gli orientamenti della Commissione, per poter valutare se una pratica commerciale sia in contrasto con la Direttiva occorre procedere con una valutazione caso per caso con cui dimostrare che: i consumatori, che hanno in mente un “prodotto di riferimento[4]”, riponevano alcune aspettative nel prodotto che hanno acquistato, che invece di discosta in maniera significativa; le informazioni sul prodotto fornite dal professionista ai consumatori non sono adeguate per consentire di comprendere che vi potrebbero essere delle differenze rispetto alle loro aspettative; le informazioni inadeguate o insufficienti sono tali da incidere in misura determinante sul comportamento economico del consumatore, inducendolo ad acquistare un prodotto che altrimenti non avrebbe acquistato.

La Commissione evidenzia poi alcuni elementi oggettivi in presenza dei quali si può riscontrare una differenza significativa delle caratteristiche principali di un prodotto. Ciò accade quando, ad esempio, un ingrediente essenziale, una serie di ingredienti essenziali, o una sua percentuale differiscono in maniera sostanziale dal prodotto di riferimento, e quando la differenza potenzialmente in grado di incidere sul comportamento economico del consumatore, che avrebbe assunto una diversa scelta d’acquisto se avesse saputo tale differenza.

Inoltre, la Commissione sta lavorando per riuscire a definire una metodologia scientifica solida e condivisa per l’acquisizione e gestione delle prove comparative sui prodotti, sta finanziando attività di sviluppo per rafforzare il rispetto della normativa e sta promuovendo occasioni di dialogo con i soggetti della filiera interessati, produttori, consumatori, autorità e controllori.

[1] Per differenze di qualità di alcuni prodotti si intende, appunto, il caso in cui prodotti commercializzati nell’ambito del mercato unico sotto lo stesso marchio o denominazione commerciale presentano, negli Stati membri, differenze in termini di composizione o qualità.

[2] Trattasi della Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme in materia di tutela degli alimenti e dei consumatori alle questioni di differenze di qualità dei prodotti – il caso specifico dei prodotti alimentari, (2017/C 327/01).

[3] Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.05.2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/7/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento CE n.2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio.

[4] Secondo i criteri di individuazione proposti dalla Commissione, il prodotto di riferimento, che funge da termine di paragone tra quanto ci si aspetta e quanto concretamente si ottiene dal prodotto acquistato, è un prodotto venduto in diversi Stati membri con lo stesso marchio e lo stesso imballaggio, è venduto nella maggior parte degli Stati membri con una determinata composizione, la percezione delle principali caratteristiche da parte dei consumatori corrisponde alla composizione del prodotto come pubblicizzata nella maggior parte degli Stati membri.

Riportiamo una notizia pubblicata qualche giorno addietro dal Mipaaf sul proprio sito, con la quale ha comunicato che è disponibile ed attiva la piattaforma informatica per la partecipazione al bando relativo ai contratti di filiera e di distretto, presentando la relativa domanda e documenti a partire dalle ore 10.00 del 29 gennaio 2018 (il termine iniziale del 27 novembre 2017 è stato prorogato per consentire agli istituti bancari coinvolti nella procedura di assicurare una trasparente ed equa valutazione dei progetti che si candidano a partecipare al bando).

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La trasmissione della domanda di partecipazione avverrà in modalità digitale, mediante una semplice procedura di caricamento dei documenti nell’apposita area cloud e successivo invio di pec.

Il Mipaaf ha realizzato inoltre una videoguida, pubblicata su YouTube, con istruzioni e suggerimenti pratici per l’utilizzo corretto della piattaforma. Gli interessati possono reperire le necessarie informazioni sulla pagina ufficiale https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/9327

Le persone allergiche e intolleranti (e quante ce ne sono!) incontrano spesso difficoltà a capire con certezza se quella particolare sostanza sia presente o meno in un determinato alimento, perché troppo spesso le informazioni veicolate ai consumatori in materia di allergeni sono imprecise e fuorvianti. Queste persone, attente ad evitare di acquistare cibi contenenti la sostanza pericolosa per la loro salute ed anche per la loro vita, si imbattono in etichette e messaggi commerciali non proprio limpidi e rassicuranti.

Alla disciplina dettata dalla Dir. 2003/89/CE è seguita quella del Reg. n.1169/2011 che all’art.9 prevede, tra le indicazioni obbligatorie “qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico elencato nell’allegato II o derivato da una sostanza o un prodotto elencato in detto allegato che provochi allergie o intolleranze usato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se in forma alterata” (par.I, lett.c)[1].

Nell’allegato II citato dalla norma sono elencate le “sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze” come i cereali contenenti glutine, i crostacei e i prodotti a base di crostacei, uova e prodotti a base di uova…con le relative specificazioni e descrizioni, elenco che rimane soggetto a verifiche ed aggiornamenti da parte della Commissione Europea al fine di rendere coerente la disciplina con i progressi e le scoperte scientifiche in campo.

allergeni 3Il Reg. UE n.1169/2011 detta poi specifiche disposizioni relative all’etichettatura, prevedendo all’art.21 che le sostanze in questione devono figurare nell’elenco ingredienti in ordine ponderale decrescente, con un riferimento chiaro alla denominazione della sostanza o del prodotto presente nell’all.II, che va evidenziata con un carattere chiaramente distinto dagli altri ingredienti. In mancanza di un elenco ingredienti le indicazioni utilizzano il termine “contiene” seguito dalla denominazione della sostanza o del prodotto, e quando più ingredienti o coadiuvanti tecnologici provengono da un’unica sostanza o prodotto presente nell’all.II, tale circostanza deve essere precisata per ciascun ingrediente o coadiuvante tecnologico.

Tutto questo, si applica “fatte salve le disposizioni adottate ai sensi dell’art.44, par.II…” che regola le informazioni relative agli alimenti non preimballati[2] e prevede, in particolare, l’obbligo delle indicazioni di cui all’art.9, par.I, lett.c) e la possibilità degli Stati membri di adottare disposizioni nazionali relative ai mezzi e alla forma di espressione e presentazione utilizzabili per rendere tali informazioni.

L’individuazione di tali obblighi e regole operative a livello europeo potrebbe risultare sufficiente per consentire ai consumatori di ricevere le necessarie informazioni circa la presenza di sostanze che potrebbero causare loro dei rischi per la salute, ovviamente se correttamente applicate dagli operatori coinvolti sui quali, ai sensi della norma generale contenuta nell’art.8 del Reg. UE n.1169/2011[3], ricade la responsabilità per le informazioni sugli alimenti.

Con la Circolare n.3674 del 6.02.2015, il Ministero della Salute ha dato alcune istruzioni pratiche per facilitare l’applicazione delle regole in materia di allergeni e l’assolvimento degli obblighi di informazione da parte degli operatori del settore alimentare che somministrano cibi pronti all’interno di una struttura (scuola, ospedale, mensa, servizio di catering…), che hanno l’obbligo di dare al consumatore finale tutte le informazioni che dovessero essere richieste. Effettivamente, per i consumatori della collettività non è facile reperire le informazioni utili a scegliere quali alimenti tra quelli serviti possono essere assunti senza rischi e quali invece sono pericolosi perché contenenti ad esempio arachidi o prodotti a base di arachidi oppure del sedano.allergeni 2

La Circolare ministeriale ha suggerito che le informazioni devono essere pose bene in vista e devono essere facilmente e liberamente accessibili da parte dei consumatori, riportate sui menù, registri, cartelli o supporti anche tecnologici idonei allo scopo (la Circolare esclude che sistemi elettronici tipo applicazioni per smartphone o codice QR possano essere previsti quali unici strumenti informativi, perché di fatto non appartengono a tutta la popolazione e quindi non sono idonei allo scopo). Si ritiene idoneo allo scopo anche il predisporre, in luogo ben visibile all’interno della struttura, sul menù o su apposito supporto, un avviso scritto che riporti diciture del tipo “le informazioni circa la presenza di sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze sono disponibili rivolgendosi al personale in servizio” oppure “per informazioni circa sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze è possibile consultare l’apposita documentazione che verrà esibita, a richiesta, dal personale in servizio”. La scelta sulla modalità scritta con cui assolvere l’obbligo informativo è rimessa all’operatore, che valuterà in base all’organizzazione e alle caratteristiche della propria impresa e, ovviamente, il personale in questione dovrà essere stato adeguatamente formato e preparato.

Altro problema in tema di allergeni è quello delle informazioni aggiuntive che l’operatore può, se ritiene utile, riportare in etichetta, ovvero di tutte quelle diciture che sempre più spesso compaiono sulle confezioni di molti prodotti alimentari del tipo “può contenere tracce di…” oppure “prodotto in uno stabilimento che utilizza…” che ad oggi non sono oggetto di disciplina normativa europea ma vengono utilizzate, come informazioni volontarie ai sensi dell’art.36 del Reg. n.1169/2011, in via cautelativa.

Tale norma stabilisce infatti i requisiti delle informazioni volontarie[4] e, in particolare, prevede poi che la Commissione debba adottare atti di esecuzione sull’applicazione dei requisiti stessi in relazione alle “informazioni relative alla presenza eventuale e non intenzionale negli alimenti di sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranza” (par.III, lett.a).

La mancanza di istruzioni operative precise fa sì che le informazioni dei cosiddetti “may contain” restino spesso troppo equivoche e rischiano di creare incertezza e confusione nel consumatore che, leggendo ad esempio “prodotto in uno stabilimento che utilizza uova” non sa concretamente se l’alimento che sta per acquistare possa contenere uova, in quale quantità, con quale probabilità. Di fronte a simile generica informazione, il consumatore non è in grado di valutare pienamente e consapevolmente la presenza di un rischio per la sua salute (di fatto, cosa significa “può contenere tracce di crostacei”?).allergeni 1

Quando l’operatore, nonostante la corretta applicazione dei sistemi di autocontrollo e delle buone prassi igieniche, non sia in grado di escludere la presenza di allergeni per contaminazione accidentale, tale eventualità deve essere adeguatamente comunicata al consumatore al fine di richiamare la sua attenzione sul fatto che quel prodotto potrebbe costituire un pericolo per la propria salute (soprattutto considerato che l’EFSA ha comunicato recentemente che la comunità scientifica non ha ancora definito un livello di contaminazione da ingredienti allergenici, ovvero “tracce”, al di sotto del quale si possa escludere il rischio di reazioni allergiche nei consumatori sensibili).

Uno spiraglio interpretativo è forse dato dalla Commissione Europea che, con comunicazione del 13 luglio scorso, ha emanato delle Linee Guida e ha dato alcune indicazioni pratiche sull’interpretazione del Reg. UE n.1169/2011. Ha precisato, ad esempio, che il termine “uova” dell’all.II si riferisce alle uova prodotte da tutti i volatili d’allevamento, e il termine “latte” si riferisce al latte secreto dalla ghiandola mammaria di animali di allevamento ed ha precisato poi che gli ingredienti prodotti da cereali contenenti glutine devono essere dichiarati con una denominazione che contenga un riferimento chiaro al tipo specifico di cereale quale grano, segale, orzo, avena a cui può essere aggiunta volontariamente la parola “glutine”. Invece, in caso di mancanza di un elenco degli ingredienti, quando l’alimento è utilizzato come ingrediente nella fabbricazione o preparazione di un altro alimento che ha l’elenco ingredienti, gli allergeni presenti in questo alimento devono essere evidenziati (ad esempio, suggerisce la Commissione, se nell’elenco ingredienti compare il vino, questo deve essere seguito da “contiene solfiti” e la parola “solfiti” deve essere evidenziata).

Vedremo se lo sforzo della Commissione sarà stato davvero utile in tema di allergeni in etichetta.

 

[1] L’unica eccezione a tale obbligo è consentita nei casi in cui la denominazione dell’alimento fa chiaramente riferimento alla sostanza o al prodotto in questione (art.21, par.I, comma 4).

[2] Secondo le definizioni date dallo stesso Regolamento in commento, per alimento preimballato si intende l’unità di vendita destinata a essere presentata come tale al consumatore finale e alle collettività, costituita da un alimento e dall’imballaggio in cui è stato confezionato prima di essere messo in vendita, avvolta interamente o in parte da tale imballaggio, ma comunque in modo tale che il contenuto non possa essere alterato senza aprire o cambiare l’imballaggio” ; inoltre, è specificato che l’alimento preimballato non comprende gli alimenti imballati nei luoghi di vendita su richiesta del consumatore o preimballati per la vendita diretta” (art.2, par. II, lett.e).

[3] Il noto art.8 espressamente dichiara che “L’operatore del settore alimentare responsabile delle informazioni sugli alimenti è l’operatore con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto o, se tale operatore non è stabilito nell’Unione, l’importatore nel mercato dell’Unione.

[4] Ricordiamo che le informazioni volontarie non inducono in errore il consumatore, non sono ambigue né confuse per il consumatore e sono, se del caso, basate sui dati scientifici pertinenti (par. II).

Nel corso degli ultimi mesi la zootecnia italiana ha segnato traguardi importanti.

Ad esempio, con il passaggio del Modello IV utilizzato per l’identificazione e la registrazione degli animali (sostanzialmente un foglio su cui indicare i dati riguardanti l’animale da trasportare e l’azienda, come la provenienza e destinazione dell’animale, i trattamenti sanitari effettuati, gli spostamenti) dal formato cartaceo a quello digitale, da gestire attraverso la Banca Dati Nazionale dell’anagrafe zootecnica (BDN).

Dallo scorso 2 settembre, infatti, è diventata operativa la modalità informatica di compilazione del Modello IV e la movimentazione degli animali viene gestita esclusivamente in via telematica, con l’addio definitivo al “foglio rosa”[1].

Il settore di cui ci stiamo occupando ha subito nel tempo colpi e contraccolpi pesanti che hanno finito (direttamente, o indirettamente come conseguenza di focolai accesi in altri Paesi) per aumentare polemiche e sfiducia, mediante i noti servizi di stampa e tv sulle condizioni degli allevamenti e dei macelli coinvolti nelle attività criminali, così come attraverso le inchieste mediatiche “a tappeto” sugli allevamenti intensivi e l’uso dei farmaci veterinari, e quelle sugli impatti ambientali derivanti dalla produzione bovina.

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Ecco perché a maggio, a Padova, i principali rappresentanti della filiera zootecnica bovina in Italia, allevatori, associazioni, medici veterinari e rappresentanti delle Istituzioni si sono incontrati per parlare di futuro ed hanno sottoscritto[2] la Carta di Padova per la zootecnia bovina da carne prodotta in Italia, formulando precise richieste di intervento alle diverse Istituzioni interessate.

Innanzitutto, al Ministero della Salute e al Mipaaf è stato chiesto di presentare alla Commissione europea un progetto di Regolamento per la creazione di una cartella clinica dei bovini nati in Europa destinata a ricevere e conservare i dati e le informazioni sui trattamenti farmacologici, compresi quelli omeopatici, effettuati sull’animale sin dalla nascita, in modo da renderli immediatamente disponibili alle Autorità Sanitarie di ogni Paese Membro, ai Macelli e Laboratori di Sezionamento delle carni, ed incentivando l’adozione della ricetta elettronica[3]. Alla medesima Commissione è stato poi richiesto di sviluppare tale progetto e favorire l’attuazione della ricetta elettronica.

Inoltre, hanno formalmente chiesto al Mipaaf di adottare il Piano Carni Bovine Nazionale già da tempo presentato dal Consorzio L’Italia Zootecnica e più volte revisionato, di darne attuazione e di promuovere così l’avvio del Sistema di Qualità Nazionale Zootecnica (SQNZ).

Ancora, i produttori hanno confermato il proprio impegno a garantire il benessere animale anche attraverso l’applicazione di strumenti integrativi rispetto a quelli previsti dalle norme di settore[4], a migliorare la qualità della carne e i livelli di sicurezza attenendosi ai vari Disciplinari esistenti, a utilizzare prodotti di qualità nell’alimentazione e abbeveramento degli animali, a garantire pulizia e condizioni salubri negli allevamenti, e un utilizzo controllato dei farmaci veterinari. Nell’ottica della trasparenza e della tracciabilità, e quindi per fornire ai consumatori le informazioni utili, si impegnano ad osservare i Disciplinari di Etichettatura Facoltativa delle Carni Bovine attraverso interventi mirati da parte delle Istituzioni coinvolte.

Viene poi richiesto ai soggetti che, mediante i diversi canali della distribuzione, commercializzano la carne bovina, di garantire la correttezza e la trasparenza della filiera anche attraverso il rispetto delle migliori prassi e dei diritti dei lavoratori, valorizzando un prodotto che occupa un ruolo importante nell’economia del Paese.

La Carta di Padova non dimentica di rivolgere un’attenzione particolare anche agli organi di stampa, con esplicito invito ad attenersi a verità ed obiettività nel riportare dati e informazioni.

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Infine, viene dato ampio spazio al problema dell’informazione ai consumatori circa gli alimenti a base di carne bovina nella ristorazione, e a tal fine viene proposta in allegato alla Carta stessa una bozza di Decreto Legge “ETICHETTATURA E TRACCIABILITA’ DELLE CARNI BOVINE NELLA RISTORAZIONE”[5] posto che la crescente abitudine per gli italiani di mangiare al ristorante, al bar, in trattoria è dato inconfutabile, nelle pause pranzo o per cena, e che pertanto è ormai indispensabile che il consumatore possa conoscere le informazioni sulle carni bovine che non ha acquistato ma che di fatto gli vengono somministrate al tavolo.

La Carta di Padova costituisce così uno strumento programmatico dalle molteplici potenzialità e in grado, se concretamente attuata da tutti i soggetti coinvolti, di consentire interventi su diversi livelli e da più parti, di restituire alla carne bovina italiana il ruolo ed il pregio che l’hanno contraddistinta nel tempo, per le proprietà nutrizionali, per l’attenzione verso l’ambiente e verso le condizioni degli allevamenti, per il benessere degli animali, e per l’interesse a garantire la sicurezza e l’informazione dei consumatori.

[1] In parte previsto dall’Ordinanza Ministeriale 28 maggio 2015 e poi dal D.M. 28.06.2016.

[2]I firmatari: Associazione Produttori Carni Bovine UNICARVE, Associazione Produttori ASPROCARNE, Organizzazione Produttori AZOVE, Allevatori Marchigiani BOVINMARCHE, Consorzio Carni di SICILIA, Cooperativa Zootecnica SCALIGERA, Soc. Coop. BOVINITALY, Cooperativa Agricola Produttori Castellana, Consorzio LA CARNE CHE PIACE, Associazione Produttori Carni Bovine del BOCCARONE, Associazione Italiana Macellatori ASSITAMA, Consorzio L’Italia Zootecnica.

[3] La ricetta elettronica quale strumento finalizzato a garantire una maggiore tracciabilità del farmaco veterinario e delle malattie dell’animale.

[4] Ad esempio, si legge nella Carta, i Disciplinari del Centro di Referenza Nazionale per il Benessere Animale (CReNBA), IZSLER di Brescia per la ‘Valutazione del Benessere Animale e Biosicurezza.

[5] L’ Art. 1 della bozza individua oggetto e campo di applicazione “Il presente decreto stabilisce norme riguardanti la rintracciabilità e l’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza sulle carni bovine, anche macinate, e delle preparazioni che le contengano, impiegate negli alimenti oggetto di somministrazione e vendita in Italia da parte delle collettività”.

Si sa, i bambini che vivono nelle città (e sono sempre di più) sono abituati a vedere frutta e verdura nel carrello della spesa o nelle cassette del fruttivendolo, e pochi di loro sanno che quelle pere e quelle carote sono nate e cresciute sull’albero e sotto terra. Mangiano pasta quasi tutti i giorni, ma difficile che sappiano da dove arrivano spaghetti e fusilli…e se anche qualcuno gliel’ha spiegato, difficle che abbiano visto un seme di grano o una pianta di farro.

Un recente comunicato stampa di Slow Food annuncia il via, anche per quest’anno, del progetto didattico dedicato ai bambini per portarli a conoscere gli orti e i prodotti della natura.

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Parte domani, 10 novembre, quella che Slow Food chiama la Festa Nazionale di Orto in Condotta, occasione per gli allievi delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado per far sprofondare mani e piedi nelle zolle tra i campi dimenticando per un po’ videogiochi e televisione.

L’edizione 2017, che vedrà coinvolte 570 classi in tutta Italia, è incentrata sul tema dei cereali, e gli alunni infatti avranno un kit speciale contenente 5 tipi di semi pronti da interrare insieme, con l’aiuto degli insegnanti e dei genitori che hanno aderito. In ogni kit ci sono 2 semi di grano duro, 2 semi di grano tenero e un seme di farro, che verranno poi osservati durante l’anno per capire la crescita e le fasi di maturazione.
Inoltre, i kit contengono anche 3 farine diverse da manipolare, annusare, osservare, per capire come si arriva dal seme alla pasta.

La manifestazione comprende anche due iniziative divertenti e istruttive per i giovani alunni, pienamente inserite nello spirito e nel percorso di sensibilizzazione di Slow Food. Innanzitutto, è stato programmato un concorso per la realizzazione dello spaventapasseri più originale ottenuto con materiali di recupero provenienti dall’orto e di scarto in generale, e poi la premiazione della migliore ricetta “amica del clima” nell’ambito della campagna Menu for change, lanciata a settembre, che promuove scelte anche alimentari più favorevoli al clima e all’ambiente.

Durante la Festa, le scuole possono organizzare delle ulteriori attività personalizzate a seconda della propria realtà territoriale e ambientale, a cui possono partecipare anche i genitori e i nonni (custodi di ricette gustose e salutari e di “saggezza ortolana”) ad esempio portando gli alunni in visita a mulini, facendo portare a casa un vasetto col semino interrato, lavorando insieme la farina per fare la pasta tradizionale del loro paese…

La manifestazione non riguarda solo la conoscenza dei prodotti della natura e dei cereali, bensì riesce a coinvolgere anche aspetti collaterali ma fondamentali quali la famiglia, le tradizioni, i mestieri locali, attraverso la partecipazione attiva dei genitori e dei nonni e la consegna ai più giovani degli antichi saperi e sapori.

Mettiamo di voler preparare una buona pizza in casa, e prendiamo gli ingredienti base: farina di grano, lievito, mozzarella, origano, basilico, pomodoro…mettiamo che sia inverno, che non abbiamo nell’orto dei pomodori freschi (o magari, non abbiamo nemmeno l’orto), e ci accontentiamo di un barattolo di conserva, oppure di un vasetto di salsa pronta.

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I recenti provvedimenti emanati nei mesi scorsi in materia di indicazione obbligatoria dell’origine di grano e latte (e riso), ci consentiranno di delineare il dna geografico della nostra pizza. Ancora di più con il decreto interministeriale (Mipaaf e Mise) firmato nei giorni scorsi dai Ministri Martina e Calenda, che prevede, in via sperimentale, l’introduzione dell’obbligo di indicazione dell’origine del pomodoro per sughi, conserve e derivati. Per due anni, l’etichetta dei barattoli di conserve, concentrati, sughi e salse, composti per il 50% almeno da derivati del pomodoro, dovrà riportare informazioni sull’origine del pomodoro.

In particolare, il provvedimento interministeriale prevede che le confezioni di derivati del pomodoro, sughi e salse prodotte in Italia e composti per il 50% almeno da derivati del pomodoro, dovranno avere obbligatoriamente indicare: il Paese di coltivazione del pomodoro, ovvero il nome del Paese nel quale il pomodoro viene coltivato; il Paese di trasformazione del pomodoro, ovvero il nome del paese in cui il pomodoro è stato trasformato. Se coltivazione e trasformazione avvengono nel territorio di più Paesi, possono essere utilizzate, a seconda della provenienza, le seguenti diciture: Paesi UE, Paesi NON UE, Paesi UE E NON UE. Se invece tutte le fasi avvengono in Italia, si può utilizzare la dicitura “Origine del pomodoro: Italia”.

Inoltre, il decreto prevede che le indicazioni sull’origine del pomodoro dovranno essere apposte in etichetta in un punto evidente e nello stesso campo visivo in modo da essere facilmente riconoscibili, chiaramente leggibili ed indelebili. Il decreto decadrà in caso di piena attuazione dell’art.26, par.3, del Regolamento (UE) n.1169/2011 che prevede i casi in cui debba essere indicato il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario utilizzato nella preparazione degli alimenti, subordinandone l’applicazione all’adozione di atti di esecuzione da parte della Commissione, che ad oggi non sono stati ancora emanati.

È inoltre prevista una fase per consentire l’adeguamento delle aziende interessate al nuovo sistema e permettere lo smaltimento completo delle etichette e confezioni già prodotte.

Questa novità si inserisce a pieno, quasi inevitabile, nell’attuale movimento normativo che sta rafforzando (almeno sulla carta) la portata delle informazioni al consumatore circa l’origine dei prodotti, ponendo nuovi obblighi agli operatori del settore alimentare.

Lo stesso Mipaaf, nella propria comunicazione ufficiale del 21 ottobre u.s. riferisce che dai dati emersi dalla consultazione pubblica avviata online sulla trasparenza delle informazioni in etichetta dei prodotti agroalimentari, a cui hanno partecipato oltre 26mila cittadini, risulterebbe che oltre l’82% degli italiani considera importante conoscere l’origine delle materie prime per questioni legate al rispetto degli standard di sicurezza alimentare, in particolare per i derivati del pomodoro.

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Tutti quelli che desiderano conoscere il passaporto di una pizza simile a quella descritta qualche riga sopra, o di una crocchetta di riso ripiena di pomodoro e formaggio, avranno un’informazione in più oltre a quelle sull’origine di grano, latticini, riso… potranno infatti sapere l’origine della salsa o del sugo di pomodoro utilizzato.

Che questo incida sul sapore della nostra pizza o della nostra crocchetta, non credo. Credo piuttosto che siano (anche) importanti una buona lavorazione e lievitazione dell’impasto, la cottura giusta in forno, la frittura perfetta. E una profumata foglia di basilico!

Chiunque abbia vissuto in Germania, per esempio, ha sperimentato il sistema del vuoto a rendere delle bottiglie di vetro e di plastica di acqua, bibite, succhi di frutta, che vengono restituite al punto vendita o all’apposito raccoglitore dopo essere state svuotate, a fronte di una simbolica somma di denaro versata come cauzione, e che saranno lavate e adattate per essere poi riutilizzate. Acquisti delle bottiglie al bar, al distributore automatico, al supermercato, e leggi sulla confezione un minimo sovraprezzo (circa 0,25 cent, 0,50 cent), che perderai se deciderai di non restituire la bottiglia.

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Questa modalità di utilizzo e restituzione delle bottiglie di vetro, plastica o altro materiale viene ora proposta anche in Italia, pur se in via volontaria e sperimentale, grazie al Decreto 3 luglio 2017 n.142 ovvero il Regolamento recante la sperimentazione di un sistema di restituzione di specifiche tipologie di imballaggi destinati all’uso alimentare, ai sensi dell’articolo 219-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 emesso dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare in vigore dal 10 ottobre scorso, per un periodo di 12 mesi.

Si tratta di 7 articoli e 3 Allegati, attraverso i quali si vuole perseguire la finalità dichiarata all’art.1 di prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio, favorendo il riutilizzo degli imballaggi usati”, sensibilizzando gli operatori e i consumatori sull’importanza e necessità di ridurre i rifiuti attraverso il riciclo dei contenitori più diffusi come le bottiglie di vetro e di plastica.

Il Decreto interessa solo alcune tipologie di contenitori come bottiglie di acqua minerale e birra serviti al pubblico da alberghi o residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri punti di consumo, di cui all’articolo 219-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152[1], in plastica, vetro o altro materiale e di volume compreso tra 200 ml e 1,5 litri”, che attraverso la restituzione e la lavorazione potranno essere riutilizzati fino a 10 volte.

Per partecipare a tale sistema, su base volontaria, occorrerà aderire alla filiera del vuoto a rendere ovvero l’insieme degli operatori che a titolo professionale sono coinvolti nell’attuazione del sistema del vuoto a rendere. La filiera e’ di tipo lungo se la consegna avviene indirettamente, tramite il distributore, viceversa e’ di tipo corto se la consegna e’ svolta direttamente dal produttore di bevande, in assenza del distributore”, mediante la compilazione del modulo Allegato 1 al Decreto e con le modalità indicate all’art.3.

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Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare prevede la tenuta di un Registro (aggiornato mensilmente) degli operatori aderenti alla sperimentazione e lo pubblica sul sito web istituzionale, e rilascia un attestato di benemerenza da affiggere sul proprio punto vendita.

Come calcolare la somma da imputare a cauzione? Secondo il nuovo regolamento, il valore della cauzione deve essere individuato in base al volume dell’imballaggio sulla base dei parametri riportati alla tabella Allegato 2, e sarà compreso tra 0,5 e 0,30 centesimi di euro. Come si legge all’art.4, “l‘importo della cauzione in nessun caso comporta un aumento del prezzo di acquisto per il consumatore”.

È inoltre contemplato un sistema di monitoraggio specifico finalizzato alla raccolta, all’analisi e alla valutazione dei dati della sperimentazione” e gestito con le modalità riportate all’art.6.

L’obiettivo della sperimentazione è capire e determinare il numero delle adesioni e il concreto atteggiamento dei consumatori, per valutare se rendere permanente e definitivo il sistema del vuoto a rendere.

[1] L’art.219-bis. Sistema di restituzione di specifiche tipologie di imballaggi destinati all’uso alimentare, introdotto dall’art. 39, comma 1, legge n. 221 del 2015, recita “1. Al fine di prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio e di favorire il riutilizzo degli imballaggi usati, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione è introdotto, in via sperimentale e su base volontaria del singolo esercente, il sistema del vuoto a rendere su cauzione per gli imballaggi contenenti birra o acqua minerale serviti al pubblico da alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri punti di consumo. 2. La sperimentazione di cui al comma 1 ha una durata di dodici mesi. 3. Ai fini del comma 1, al momento dell’acquisto dell’imballaggio pieno l’utente versa una cauzione con diritto di ripetizione della stessa al momento della restituzione dell’imballaggio usato. 4. Con regolamento adottato, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono disciplinate le modalità della sperimentazione di cui al presente articolo. Con il medesimo regolamento sono determinate le forme di incentivazione e le loro modalità di applicazione nonché i valori cauzionali per ogni singola tipologia di imballaggi di cui al presente articolo. Al termine della fase sperimentale si valuterà, sulla base degli esiti della sperimentazione stessa e sentite le categorie interessate, se confermare e se estendere il sistema del vuoto a rendere ad altri tipi di prodotto nonché ad altre tipologie di consumo”.

 

Il Reg. n. 1151/2012[1] ha raccolto le disposizioni su DOP, IGP e STG che prima erano distribuite nei diversi Regolamenti del 1992 e del 2006, mantenendo distinte le relative norme su presupposti, domande di riconoscimento e modifica, uso dei nomi, ed elaborando norme comuni in materia di controlli ufficiali, rapporti con la proprietà industriale, tutela delle denominazioni e dei simboli, presentazione delle domande.

L’art.4 dichiara l’obiettivo sotteso ai regimi DOP e IGP, ovvero quello di “aiutare i produttori di prodotti legati a una zona geografica nei modi seguenti: a) garantendo una giusta remunerazione per le qualità dei loro prodotti; b) garantendo una protezione uniforme dei nomi in quanto diritto di proprietà intellettuale sul territorio dell’Unione; c) fornendo ai consumatori informazioni chiare sulle proprietà che conferiscono valore aggiunto ai prodotti”.

Di tali segni distintivi di qualità avevamo già parlato in un precedente articolo.

montagna1Il medesimo Regolamento (artt.27-34) prevede e disciplina anche le meno note indicazioni facoltative di qualità, istituite per agevolare la comunicazione da parte dei produttori delle caratteristiche o proprietà dei prodotti che conferiscono a questi ultimi un certo valore aggiunto. I criteri richiesti dall’art.29 sono: l’indicazione si riferisce ad una o più categorie di prodotti o a una modalità di produzione o trasformazione applicabili in determinate zone; l’uso dell’indicazione dà un valore aggiunto al prodotto (rispetto a prodotti simili); l’indicazione stessa ha dimensione europea.

In particolare, l’art. 31 prevede l’istituzione dell’indicazione facoltativa “prodotto di montagna”, utilizzabile quando sia le materie prime che gli alimenti per gli animali provengono essenzialmente da zone di montagna e, per i prodotti trasformati, anche la trasformazione avvenga in zone di montagna.

Qualche settimana addietro (GU Serie Generale n.214 del 13-09-2017) è stato pubblicato il Decreto 26 luglio 2017 recante Disposizioni nazionali per l’attuazione del regolamento (UE) n. 1151/2012 e del regolamento delegato (UE) n. 665/2014 sulle condizioni di utilizzo dell’indicazione facoltativa di qualita’ «prodotto di montagna».

Il provvedimento, che consta di 8 articoli e di un Allegato, vuole fornire istruzioni operative concrete per chiarire quando e come gli operatori del settore alimentare possono utilizzare la dicitura “prodotto di montagna”. Innanzitutto, all’art.2, dice che «zone di montagna» sono “le aree ubicate  nei  comuni  classificati totalmente  montani  e  parzialmente  montani,  di  cui  all’art.  32 paragrafo 1 del regolamento (UE) n. 1305/2013, nei piani di  sviluppo rurale delle rispettive regioni”.

Specifica poi, all’art.2, le condizioni di utilizzo dell’indicazione “prodotto di montagna”, ovvero i requisiti e i criteri relativi ai prodotti trasformati e ai mangimi, necessari per poterla applicare, salve le deroghe ammesse dall’art.3.

montagna2È interessante, poi, il richiamo espresso agli obblighi di tracciabilità a carico degli operatori, tra i vari adempimenti specifici a cui sono tenuti dall’art.4 che prevede “Gli  operatori  sono  tenuti  ad  adempiere  alle  prescrizioni previste in tema di rintracciabilita’ di cui al regolamento  (CE)  n. 178/2002, in modo da consentire una rintracciabilita’ dei prodotti di montagna, delle materie prime  e  dei  mangimi  destinati  ad  essere utilizzati nel relativo ciclo di produzione. La  tracciabilita’  deve essere assicurata in ogni fase della produzione, della trasformazione e   della commercializzazione.    La    relativa    documentazione giustificativa deve essere  fornita  su  richiesta  degli  Organi  di controllo ufficiali”.

Ancora, come stabilisce l’art.6, il Ministero può provvedere ad istituire un logo apposito per l’indicazione “prodotto di montagna” da applicare ai prodotti che aderiscono ai criteri e presupposti previsti dagli artt-27-34 Reg. UE n.1151/2012 e dal Decreto attuativo 26 luglio 2017.

[1] Trattasi del noto Regolamento UE n. 1151 del 21.11.2012 del Parlamento e del Consiglio, sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari, entrato in vigore il 4.01.2013 (ad eccezione dei simboli di DOP, IGP, STG le cui disposizioni relative sono entrate in vigore il 4.01.2016, tranne che per i prodotti immessi sul mercato anteriormente a tale data).

Quante volte capita di trovare sugli scaffali dei supermercati e dei negozi di alimentari confezioni di latte di soia e latte di avena, che in realtà non contengono nemmeno un a goccia di latte? Allora, il latte cos’è e quando si può utilizzare questa denominazione senza ingenerare confusione? La realtà è che denominazioni tipiche dei prodotti lattiero-caseari (latte, yogurt, formaggio…) vengono spesso riportate sulle confezioni di prodotti di origine unicamente vegetale (soia, tofu…) che appartengono alla dieta vegetariana o vegana, e che comunque non hanno alcun legame con ciò che deriva dagli animali.

Resta fondamentale, a prescindere dalle rispettive convinzioni morali e dalle diverse abitudini alimentari, assicurare a tutti i consumatori che l’alimento abbia le caratteristiche e le qualità nutritive e compositive corrispondenti a quanto riportato sull’involucro o veicolato tramite i messaggi pubblicitari, innanzitutto garantendo che la denominazione di vendita sia univoca e non ingannevole.latte di ssoia

In materia di bevande vegetali e denominazioni di vendita, si è recentemente pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione europea, Settima sezione, interpellata su rinvio pregiudiziale da parte di un Giudice tedesco nella causa C-422/2016,  con sentenza del 14 giugno 2017, con l’obiettivo dichiarato di garantire al consumatore chiarezza assoluta sull’origine vegetale del prodotto e sulle caratteristiche e qualità.

Accadeva questo: l’associazione tedesca Verband Sozialer Wettbewerb attiva nel contrasto alla concorrenza sleale[1], aveva agito contro la TofuTown avanti il competente Tribunale di Treviri (Landgericht Trier) sostenendo che la società (che produce e vende prodotti alimentari vegetariani e vegani,  commercializzati quali “formaggio vegetale”, “burro di tofu” e simili) agisse in violazione delle norme contro la concorrenza sleale e quanto previsto dal Reg. UE n.1308/2013[2] sulle denominazioni riservate a latte e prodotti lattiero-caseari.

La TofuTown, dal canto suo, si difendeva negando qualsiasi violazione e sostenendo che ormai i consumatori sono consapevoli e sanno ben distinguere i prodotti vegetali da quelli animali in quanto sanno attribuire il corretto significato a quelle denominazioni, e che in ogni caso le denominazioni utilizzate sono sempre accompagnate da termini e locuzioni che richiamano e fanno emergere l’origine vegetale del prodotto.

Il Tribunale tedesco si rivolgeva dunque alla Corte di Giustizia, sospendendo il procedimento e avanzando di fatto tre relative questioni pregiudiziali[3] chiedendo sostanzialmente l’interpretazione dell’art. 78, par. 2 in combinato disposto con l’All. VII, parte III, punti 1 e 2 del Reg. UE n.1308/2013 che regolano l’utilizzo delle denominazioni di vendita per il latte e i prodotti lattiero-caseari.

Molto brevemente, vediamo cosa prevedono le tre norme in questione.

1) L’art.78 Definizioni, designazioni e denominazioni di vendita in determinati settori e prodotti, dice espressamente che le definizioni, designazioni e denominazioni di vendita di cui all’Allegato VII si applicano anche al “latte e prodotti lattiero-caseari destinati al consumo umano”, e che “possono essere utilizzate nell’Unione solo per la commercializzazione di un prodotto conforme ai corrispondenti requisiti stabiliti nel medesimo allegato”.

2) L’All. VII, parte III, stabilisce innanzitutto al punto 1 che “Il “latte” è esclusivamente il prodotto della secrezione mammaria normale, ottenuto mediante una o più mungiture, senza alcuna aggiunta o sottrazione” e che per prodotti lattiero-caseari si intendono i prodotti derivati esclusivamente dal latte (ai quali possono essere aggiunte sostanze necessarie per la loro fabbricazione, purchè non servano a sostituire parzialmente o totalmente i componenti del latte). La denominazione “latte” può comunque essere utilizzata anche per latte che ha subito un trattamento o insieme ad altri termini per designare tipo, origine, classe qualitativa, trattamento subito.

3) le denominazioni di vendita elencate al punto 2 (siero di latte, crema di latte o panna, burro, latticello, formaggio, iogurt) sono riservate unicamente ai prodotti lattiero-caseari, così come le denominazioni ai sensi dell’art.17 Reg. UE n.1169/2011 effettivamente utilizzate per tali prodotti[4]. Infine, la denominazione “latte” e le denominazioni relative ai prodotti lattiero-caseari possono essere utilizzate anche congiuntamente ad altri termini “per designare prodotti composti in cui nessun elemento sostituisce o intende sostituire un componente qualsiasi del latte e di cui il latte o un prodotto lattiero-caseario costituisce una parte fondamentale per la quantità o per l’effetto che caratterizza il prodotto”.

yogurt di risoVi sono anche delle eccezioni ammesse dalla Decisione 2010/791/UE[5], che fornisce un elenco di prodotti nel territorio dell’Unione “la cui natura esatta è chiara per uso tradizionale e/o qualora le denominazioni siano chiaramente utilizzate per descrivere una qualità caratteristica del prodotto” (all’All.VII, parte III, punto 5, Reg. n.1308/2013) tra cui in lingua italiana latte di mandorla, burro di cacao, latte di cocco, fagiolini al burro.

La Corte di Giustizia interpellata, esaminando e risolvendo congiuntamente le tre questioni pregiudiziali, ha concluso stabilendo che i prodotti puramente vegetali non possono essere commercializzati né pubblicizzati con denominazioni che il diritto dell’Unione riserva esclusivamente ai prodotti di origine animale, anche quando siano accompagnate da termini descrittivi che indicano l’origine vegetale del prodotto.

Infatti, rileva la Corte, il latte è per definizione il prodotto della secrezione mammaria e l’aggiunta di indicazioni quali “di soia” o “di tofu” non risponde ai criteri previsti dall’art.78 che accetta solo quelle che modificano ma non stravolgono la composizione del latte (mentre appunto un “latte di soia” sarebbe una vera e propria sostituzione dell’origine animale con quella vegetale). Analoga considerazione è stata condotta per i prodotti lattiero-caseari.

formaggio di tofuLa Corte ha dunque stabilito che l’art. 78, par. 2 e l’All.VII, parte III del Reg. UE n.1308/2013 devono essere interpretati nel senso che ostano a che la denominazione «latte» e le denominazioni che tale regolamento riserva unicamente ai prodotti lattiero-caseari siano utilizzate per designare, all’atto della commercializzazione o nella pubblicità, un prodotto puramente vegetale, e ciò anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative o descrittive che indicano l’origine vegetale del prodotto in questione, salvo il caso in cui tale prodotto sia menzionato all’allegato I della decisione 2010/791/UE”.

 

[1] Secondo la normativa tedesca in materia, applicabile al caso oggetto della controversia, si configura un atto di concorrenza sleale “quando la violazione sia di natura tale da ledere in modo sensibile gli interessi dei consumatori, di altri operatori del mercato o dei concorrenti» (art. 3 bis, Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb).

[2] Trattasi del noto Regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio.

[3] Nell’ambito di una controversia loro assegnata i Giudici degli Stati membri possono, attraverso il rinvio pregiudiziale, chiedere che la Corte di Giustizia si pronunci in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione oppure in merito alla validità di un atto dell’Unione. La pronuncia, che non risolve la controversia nazionale, sarà vincolante per quel Giudice ed anche per gli altri Giudizi nazionali eventualmente chiamati a decidere questioni analoghe.

[4] Tale norma rubricata Denominazione dell’alimento, al par.1 dispone che «La denominazione dell’alimento è la sua denominazione legale. In mancanza di questa, la denominazione dell’alimento è la sua denominazione usuale; ove non esista o non sia utilizzata una denominazione usuale, è fornita una denominazione descrittiva».

[5] Decisione n.791 della Commissione, del 20.12.2010.

Gran parte delle responsabilità per i grandi sprechi di prodotti alimentari del nostro Paese ricade sugli stessi consumatori che troppo spesso adottano comportamenti errati nella gestione degli acquisti, nell’utilizzo dei prodotti, nello smaltimento dei cibi. La restante causa è data dalle falle della catena produttiva e dell’intera filiera, sulle quali certamente ci sarebbe molto da lavorare.

Secondo un’indagine condotta da Last Minute Market e dall’Università di Bologna, in Italia ogni anno lo spreco alimentare è di oltre 15,5 miliardi di € (15.502.335.001 €), pari allo 0,94% del Pil (2016), di cui 12 miliardi (il 77%, 4/5) sono dovuti a quello domestico, mentre 3,5 miliardi dalla filiera alimentare (campi 946.229.325 €; produzione industriale 1.111.916.133 €; distribuzione 1.444.189.543 €).

sprechi 1Poco più di un anno fa, ricordiamo, è entrata in vigore la Legge n. 166/2016 di cui ci eravamo a suo tempo occupati illustrandone obiettivi e potenzialità.

I recenti dati del Mipaaf indicano che le quantità di cibo recuperato e destinato ai soggetti bisognosi grazie agli strumenti previsti dalla Legge sono andate crescendo in questi mesi, e anche l’attenzione dei consumatori verso questo problema si sta rafforzando.

Se effettivamente gli interventi migliorativi sulla filiera per ridurre sprechi e rifiuti sono difficili da attuare, intanto è proprio il consumatore che nel suo piccolo può iniziare a fare la differenza. L’idea è che correggendo alcune abitudini sbagliate, molto diffuse tra i consumatori, si possa riuscire a contenere lo spreco.

Da qualche giorno, lo stesso Mipaaf ha pubblicato sul proprio sito un Vademecum che fornisce ai consumatori alcuni consigli pratici e alcune informazioni su come gestire quotidianamente la propria spesa e la propria dispensa, evidenziando così gli errori più comuni da evitare per ridurre gli sprechi e i rifiuti che sembrano banali e scontati ma che continuano a mietere vittime più o meno inconsapevoli (spesso è colpa della pigrizia e del “ci penseranno gli altri” piuttosto che della mancanza di informazione!).

Ecco sostanzialmente i suggerimenti contenuti nel Vademecum del Mipaaf:

sprechi 3

  1. Prima di fare la spesa, controllare dispensa e frigorifero, individuare cosa c’è e cosa manca, e scrivere una lista dei prodotti che effettivamente e servono
  2. Acquistare prodotti freschi più spesso, e in quantità giusta
  3. Scegliere frutta e verdura con la giusta maturazione
  4. Nell’acquisto di prodotti preconfezionati, scegliere la quantità adatta ai propri bisogni senza eccedere
  5. Leggere sempre l’etichetta per conoscere la scadenza dei prodotti
  6. Se si acquistano grandi quantità (scorte) di prodotti, ricordare di consumare prima quelli con la data di scadenza più vicina o comprati prima
  7. A tavola servire porzioni adeguate, senza esagerare nella quantità. Per i pasti fuori casa, chiedere la family bag o doggy bag per portare via eventuali avanzi
  8. In frigorifero ogni ripiano ha una sua temperatura che permette di conservare in maniera ottimale i cibi
  9. Conservare bene i prodotti con le confezioni già aperte (provvedere a richiuderle adeguatamente)
  10. Utilizzare eventuali avanzi di cibo per realizzare nuove ricette
  11. Ricordare che l’indicazione “da consumarsi entro” (data di scadenza) significa che oltre la data indicata il prodotto non deve essere consumato perché potrebbe causare pericolo immediato per la salute. Invece, la diversa indicazione “da consumarsi preferibilmente entro” (termine minimo di conservazione) significa che il prodotto può essere consumato anche oltre la data riportata, con eventuali modifiche delle sue qualità organolettiche ma senza rischi per la salute[1].

 

[1] L’indicazione di tali informazioni rientra tra quelle obbligatorie ai sensi dell’art. 2, Reg. UE n.1169/2011